di Paolo Giacometti
In questi giorni, a seguito di quanto sentito affermare da più parti in merito alla tradizione dei pan e vin, sento il dovere di porre in discussione alcune osservazioni di carattere generale.
Cosa è una tradizione ?
Da più parti, sento dire che, tradizione è ripetere quanto fatto nel passato. La mia opinione è che tutto questo sia vero ma che si debba anche considerare il contesto e il fine della tradizione. Ovvero, da secoli la tradizione e la povertà imponevano ai veneti di mangiare polenta e poco altro, magari auto prodotto, in realtà oggi, abbiamo scoperto che l’alimentazione deve essere diversificata e non per questo rinneghiamo la tradizione di mangiare polenta, che magari diventa una sfiziositá ed è una proposta da grande cucina.
Una tradizione deve essere contestualizzata e attualizzata, altrimenti diventa una forzatura, una sovrastruttura inutile, che non ha senso in una società che ci ha imposto dei cambiamenti che ci hanno fatto stare meglio.
Altro esempio, in alcune parti del mondo la donna è considerata un essere inferiore o senza diritti, è pur sempre una tradizione da rispettare? O vogliamo proporre dei valori che ci permettano di andare oltre questa forma che, mi auguro, la nostra cultura e la nostra società, dopo tanti anni di progresso, chiami inciviltà?
La tradizione ha un valore da proporre ed una forma: cosa è più importante?
Io ritengo il valore e non la forma che è legata al tempo, all’opportunità, alla necessità, ai mezzi che ho in quel momento a disposizione.
Nel caso del pan e vin ritengo necessario affermare che lo stesso aveva uno scopo, quello di illuminare una notte, di porre della luce nel triste momento del pieno inverno, vuoi per illuminare la notte di Gesù, vuoi per illuminare la strada ai Magi, vuoi per degli auspici circa il nuovo anno appena iniziato.
Ma ovviamente come si faceva ad illuminare nell’antichità? Con il fuoco, che veniva usato anche nelle case, nella esperienza quotidiana, oggi lo usiamo ancora? E in che modalità?
È bello, il nostalgico ricordo, ma se abbiamo capito che si può fare diversamente? Si può fare, mantenendo il contenuto ma modificando la forma, così come non mangiamo più polenta ma molto altro, non cuciniamo più sulle braci ma con le piastre ad induzione.
La stessa tradizione della “pinsa” dolce tipico legato alla tradizione dei pan e vin, come era fatta una volta ?
Dolce povero fatto di poche cose, fichi secchi e uvetta lo impreziosivano; oggi abbiamo “pinse” gourmet con canditi e impasti di vario tipo che fanno lievitare il prezzo di questo dolce in maniera esponenziale.
Altra cosa da considerare, siamo diventati improvvisamente tutti dei tuttologi, siamo esperti di tutto e diamo consigli a tutti, o meglio urliamo la nostra opinione magari “offendendo” chi sta lavorando e facendo del proprio meglio.
Qualunque cosa venga fatta trova subito qualcuno che è contrario e che la farebbe meglio, magari dal proprio caldo salottino o dal proprio divano.
Il diritto alla critica e al libero pensiero è sacrosanto e guai chi lo mette in discussione. Ma si abbia la decenza di esprimere un giudizio dopo aver visto o sperimentato ciò che si vuole criticare e rispettare sempre le persone.
Siamo al paradosso che si rifiuta a priori e che si accusa coloro che lavorano di essere inoperosi per il solo fatto che non agiscono secondo quanto pensato dalla persona che deve esprimere il suo “pensiero ozioso”, mentre invece si tratta di volontari che dedicano tempo, energie e qualche volta denaro per queste manifestazioni.
Ci sia la compiacenza di rispettare lo sforzo, il lavoro di chi si espone in prima persona.
Io non sono un medico e mai mi permetterei di criticare una cura propostami, prima di provarne gli effetti, anche se oggi, il dott. Google va per la maggiore e ci rende tutti “affermati specialisti”… ma gli effetti si colgono.
Uno vale uno ma, se si vive in comunità, vige anche il rispetto degli altri, del loro lavoro e del loro impegno e vige anche l’educazione del non criticare gli altri per il solo gusto di avere una tastiera davanti, che ci permette di scrivere quanto desideriamo a prescindere dall’aver collegato il “cavetto del cervello” e della ragione. Ragione che ci porterebbe a fare troppo sforzo nel valutare e magari nell’ammettere anche qualche proprio limite.
Tastiera che oggi ci ha resi tuttologi e onnipotenti e in grado di esprimere giudizi anche quando un titolo di un articolo nasce da una semplice battuta o dalla necessità di catturare l’attenzione del lettore e si giudica senza leggere tutto l’articolo.
Mi piacerebbe che si potesse serenamente discutere su questo, a prescindere da chi ha letto solo tre righe o il titolo di questo articolo, titolo che, ovviamente, metterà il direttore nella sua libertà editoriale.