L’amico geniale

C’è una foto che più di tutte voglio ricordare tra le immagini di Andrea.
Autunno 1981, siamo sulla cima del campanile di Roncade. Andrea è quello con il maglione rosso. Avevamo in mente, come poi è accaduto, di portare su un trasmettitore, installare quattro antenne e accendere quella che sarebbe stata Radiografia, un’emittente radiofonica locale che funzionò fino al 1992.
Andavamo spesso sopra il campanile, e se non era per un guasto era perché ad Andrea era venuta in mente una modifica. Non per necessità. O, meglio, se dare risposte ad una curiosità è una necessità per lui diventava una cosa fondamentale.
Esperimenti anche di notte, con la pila, spesso con un vento che gli succhiava la sigaretta prima che lui avesse il tempo di aspirare un paio di volte.
Oppure di giorno, facendo attenzione agli orari delle scampanate. Nessuna remora, comunque, a svitare i fusibili di don Carlo per escludere il rischio.

La regola di Andrea era: se non c’è ragione per cui una cosa non la si possa costruire allora occorre costruirla. O ripararla, o smontarla e rifarla che di sicuro poi funziona meglio.
Oggi forse Andrea lo avrebbero chiamato “maker” ma è troppo riduttivo.
I maker sono giovani che assemblano in modo creativo solo pezzi di qualcosa che qualcuno ha già fabbricato altrove.
Se quel qualcosa ancora non esisteva Andrea lo fabbricava. Nei limiti del possibile, ovviamente. Il fatto è che il possibile non ha un limite fino a quando non provi a vedere dove sia, e dunque le mani in tasca lui le teneva al massimo solo per riscaldare d’inverno il nastro isolante, che se è tiepido aderisce meglio.

Per Andrea, poi, non faceva differenza tirar su un traliccio di otto metri o dedicarsi alla micromeccanica, riutilizzando per mille scopi ad esempio i motori delle stampanti rotte.
Aveva confidenza con i microprocessori come con le vecchie valvole termoioniche incandescenti, con i microvolt come con le alte tensioni.
Con il vento sul mare, dato che comperò fra i primi un windsurf, e con le “termiche” sulle montagne, perché non si privò neanche del tu per tu con l’aerodinamica e le capricciose correnti sui rilievi. Almeno fino a quando, con il suo deltaplano, cadde in un bosco e si ruppe qualche osso del braccio.
Mi permisi di dirgli che tutto sommato gli era andata bene. Rispose che invece era “andata malissimo”: il sollievo di essere sopravvissuto non poteva compensare l’insoddisfazione per l’errore tecnico commesso.

Con Andrea, insomma, ero sempre tra lo stupore e l’invidia.
Invidia dei display rossi del suo frequenzimetro, della luce verde e nervosa dell’oscilloscopio, del suo laboratorio con il fumo di cicca perennemente attorcigliato a quello del saldatore a stagno.
Per chi ci sia stato, era un po’ come visitare il museo di Guglielmo Marconi con Marconi dentro.
Finita la terza media volevo a tutti i costi iscrivermi allo stesso istituto tecnico in cui aveva studiato lui, per me era quello il modello di conoscenza da rincorrere. Insistetti a lungo ma i miei non ci sentirono e mi mandarono al liceo. Amen.
Oggi penso che sarebbe stato inutile. A meno di chiamarsi Harry Potter le cose magiche non le impari a scuola.

g.f.