Non c’è niente da fare, quando si tratta di raccomandate il rapporto con l’Ufficio postale di Roncade è sempre una battaglia. Almeno per quanto mi riguarda.
Negli anni qui ne ho scritto più volte, racconto l’ultima.
Lunedì 27 gennaio, intorno alle 13, suona il campanello della casa di mio padre, 96 anni, invalido. L’assistente esce sul terrazzino e chiede chi è. Non c’è nessuno. In casa ci sono anch’io. Le chiedo. Chi era?
Lei risponde non so, è andato via.
Più tardi trovo sul fondo della cassetta della posta il consueto avviso di giacenza di una raccomandata destinata a mio padre. Il postino, evidentemente, come la maggior parte dei suoi colleghi, aveva urgenze tali da non permettergli di attendere 30 secondi in più.
Il ritiro del plico può essere fatto da terzi, data la limitatissima mobilità del genitore mi propongo come suo delegato. Trascrivo i numeri dei documenti d’identità, il suo e il mio, sul tagliando, faccio apporre la sua firma e prendo un’ ora di permesso dal lavoro (è il costo di mezzo minuto di impazienza del postino, anche su questo si potrebbe riflettere).
Faccio un errore: mi reco questa mattina all’ufficio postale con la mia carta d’identità ma senza quella di mio padre.
Purtroppo la signora allo sportello è perentoria: non crede che il destinatario della preziosa lettera sia proprio mio padre, che la firma sul tagliando sia la sua e che il numero della carta d’identità indicato corrisponda effettivamente ad un suo documento.
Sento disegnarsi sul mio volto i tratti lombrosiani del falsario truffatore.
Sfoglio tra i file del mio cellulare e trovo la foto di una carta d’identità di mio padre.
La mostro, sollevato, alla ligia impiegata ma il documento è – ahimè – quello scaduto da alcune settimane.
Non è sufficiente a dar credito alla mia pretesa di essere figlio del mandante nonché autore della firma sul tagliando.
La fisionomia criminale che è in me si solidifica, la signora mi guarda sempre più storto.
Sto per proporle un test del Dna ma mi sovviene che forse mio fratello ha nel suo smartphone qualcosa di più aggiornato.
Sono fortunato. Gli telefono, lui è in autostrada, sta andando al lavoro e trova una piazzola di sosta della A4 in cui fermarsi.
Un invio su Whatsapp risolve la questione, l’immagine questa volta, corredata dei numeri leggibili con i quali tracciare la corrispondenza con quelli trascritti sull’avviso di giacenza, accontenta l’inflessibile dipendente di Poste Italiane. Finalmente smetto di essere un impostore e ce l’abbiamo fatta.
Tutti i santi del paradiso sono stati tirati giù dai miei verbi, neppure tanto sottovoce, ma quella che si è rivelata essere una semplice comunicazione del Comune – peraltro copia di un documento già ricevuto per e-mail … – è stata portata a casa.
Vittoria.
Vittoria? Ma quale vittoria…
Può mai un Paese come il nostro progredire e velocizzarsi se anche per eseguire questioni comunissime e banali come la consegna di una raccomandata il reticolo di regolamenti diventa ogni volta sempre più ipertrofico?
Può mai una coscienza civile collettiva registrare avanzamenti se a un dipendente pubblico basta sapere di aver aderito rigidamente a quei regolamenti per poter dire a se stesso di aver compiuto nel migliore dei modi il proprio dovere di servizio al cittadino-utente?
Se la risposta è si chiedo scusa alla sportellista di titanio: vuol dire che è così che bisogna fare.
Vuol dire che l’aver cercato di usare, di tanto in tanto, il gracile muscolo del pensiero e l’alito discreto del buon senso è stato, nella mia vita, fatica sprecata.