Leva calcistica classe 1962, anno più anno meno, campionato Nagc (acronimo che indicava “Nucleo addestramento giovani calciatori”, ora scomparso) stagione 1975-1976. Foto ricordo della Pro Roncade sul campo della chiesa votiva di Treviso. Significa che di lì a qualche minuto sarebbe arrivata la consueta bastonata dalla squadra sempre più forte, l’Aurora. Era come il raffreddore, due volte l’anno dovevi prenderlo.
Fuori campo l’allenatore, Bruno Gorghetto.
Maglia rosso granata di un indefinibile materiale infeltrito, usato in precedenza per almeno una decina d’anni. Numeri cuciti sulle spalle rigorosamente da 1 a 11. Il terzino destro era sempre il 2, l’ala sinistra l’11, lo stopper il 4 e il centravanti il 9. Oggi si chiamano “laterali” o “centrali” di moduli detti 4-4-2, 4-3-3 e variabili.
Ai piedi scarpe di norma “Tepa” o “Valsport” che la società forniva nel corso di una trasferta in macchina, a settembre, da “Pinarello”, in Piazza del Grano, a Treviso. Però, chi durante l’estate era riuscito rabbiosamente a risparmiare 10 mila lire, poteva integrare di tasca propria e portarsi a casa il sogno. La “Pantofola d’Oro”.
Scarpetta che pareva un guanto, da tenerla al piede anche di notte. Sogno e schiavitù. Naturalmente si indossava solo per le partite ufficiali, come le scarpe buone, la domenica, per andare a messa. Dopo l’uso andava sciacquata con acqua fredda e messa ad asciugare in luogo lontano da fonti di calore, sennò il cuoio si crepava. All’interno si infilavano grosse palle di carta di giornale per mantenere tesa la tomaia. Una volta asciutta andava spalmata con grasso di balena e poi, il giorno successivo, lucidata con un panno morbido. Solo allora si poteva passare la patina da scarpe nera e lavorare di spazzola. Tutte le scarpe da calcio erano nere e, indossandole, andavano legate con due giri di laccio sotto il piede.
Operazione delicatissima. Chiunque fosse stato sorpreso dal mister a legarsi una scarpa slacciata durante la partita rischiava seriamente la sostituzione. Del resto, anche chi si fosse presentato con le scarpe incrostate di fango dalla gara precedente poteva essere pubblicamente svergognato e saltare il primo tempo.
La leva calcistica del 1962 fu probabilmente una delle ultime a giocare con i tacchetti di cuoio inchiodati sotto la suola. Il campo sportivo “Piero Grosso”, dove ora c’è il Lidl con il suo parcheggio, ne era disseminato perché durante le partite spesso si staccavano. Quando il tacchetto si consumava sporgevano i chiodi e capitava che i calzettoni altrui, per questo, nei contrasti si lacerassero. Quando non si lacerava la pelle, ovvio. Nel 1975 non erano ancora obbligatori i parastinchi.
I calzettoni, poi, erano senza “piede” e non erano neanche elastici. Dovevano essere legati sotto il ginocchio con delle fettucce o pezzi di lacci da scarpe usati.
In panchina l’oggetto che non mancava mai era un secchio d’acqua con una spugna. Serviva a tutto. A bagnarsi la faccia quando si giocava nelle giornate calde, a dare l’impressione di curare una botta sullo stinco appena subita. Era il ghiaccio spray ante litteram. Efficacia psicologica, niente di più, ma non poteva mancare, come l’olio canforato e la pentola di thè bollente con quarti di limone galleggianti.
Tutto questo per andare sul campo dell’Aurora e tornare a casa con un passivo di tre gol.
Con una spuma al bar sport, come con una passata di spugna sul calcione alla tibia, poi però passava tutto.