Outlet story – 3^ puntata

Debiti e complotti.
Il procrastinare incessante dell’apertura dell’Outlet di Roncade non è solo una questione di norme cavillose e in apparente contraddizione ma anche di una sofferenza finanziaria del Gruppo Basso che, nel 2009, rischia di vedere parte dei suoi beni pignorati per iniziativa di un gruppo di fornitori che avanzano un bel po’ di soldi.
Il salvataggio avviene attraverso uno schema di rinegoziazione delle esposizioni – 220 milioni – verso i creditori, tra cui un network di 28 istituti bancari.
Siamo negli anni difficili della burrasca finanziaria internazionale provocata dal fallimento di Lehman Brothers, negli Usa, e il sistema del credito di tutto il mondo, intossicato da titoli spazzatura, riduce ovunque drasticamente gli affidamenti.
E’ anche a questo che Basso dà la colpa per spiegare il mancato mantenimento degli impegni verso parecchi partner; comunque un po’ alla volta il quadro sembra sistemarsi pure attraverso la vendita di propri immobili (centri commerciali, piastre logistiche, uffici, capannoni artigianali ed industriali) in Toscana, Triveneto, Lombardia ed Emilia Romagna.
Qualche soldo tra quelli ricavati, assieme a nuova finanza accordata dalle banche, vanno a finire nella conclusione dei lavori a Roncade e, a questo punto, i problemi si riducono a quelli autorizzativi.

Che non si sciolgono.
Tra ricorsi e controricorsi tutto rimane inchiodato, e la soluzione alla quale si pensa, a questo punto, è quella di cercare di indurre il legislatore regionale a modificare la normativa così da superare le ragioni della magistratura.
Nel marzo del 2012 viene presentato un emendamento che, agendo su definizioni e distanze chilometriche, sembra poter funzionare.
Ma non viene approvato perché molti esponenti della Lega e dell’allora Popolo delle libertà (Forza Italia più Alleanza Nazionale) al momento del voto escono dall’aula e il Pd si astiene.
Questo è abbastanza per far sospettare la famiglia Basso di essere finita “vittima delle lobby”.

Quali lobby? Tema complesso e fumoso. Qui è sufficiente ricordare che il gruppo immobiliare trevigiano è anche coinvolto in un mega-progetto (in seguito abortito) che puntava a far sorgere nel centro della regione, tra Dolo e Pianiga, a ridosso del Passante di Mestre, un immenso polo commerciale chiamato Veneto City.
Mario Basso, per farla breve, possiede cioè delle aree che altri vorrebbero acquistare a condizioni di favore ma che lui non intende cedere.

Da qui le congetture su rappresaglie di stampo politico.
L’imprenditore ne è certo e si imbufalisce a tal punto da esporre, alla fine di marzo 2012, sulle pareti esterne del vuoto stabile di Roncade, uno stendardo con i nomi di tutti i consiglieri regionali che non hanno appoggiato l’emendamento, colpevoli di precludere l’avvio di un’attività che avrebbe assorbito 500 lavoratori.
A Basso ancora non basta: le vetrine interne deserte vengono tappezzate da grandi manifesti con frasi pronunciate da Giovanni Paolo II, dal patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, e da vari statisti e pensatori del passato sui temi del lavoro e della libera impresa, della crescita della società e delle responsabilità, in questo, dei gestori della cosa pubblica.
“Le chiedo – scrive Basso al patriarca – se bloccare il lavoro degli imprenditori non costituisca peccato. Le chiedo il conforto delle sue parole sulla storia di un imprenditore che non è perfetto, certo, ma che ce la mette tutta – conclude il mittente – per salvare la propria azienda ed i propri collaboratori”.

Passano i mesi ma non invano. Se l’emendamento, infatti, non ha avuto effetto, insisti e insisti la Giunta regionale alza il tono va a produrre una nuova legge. Viene presentata nell’autunno 2012 in Consiglio, è fatta per fornire un’interpretazione autentica della normativa in vigore in materia di commercio, la n.15 del 2004, oggettivamente ambigua.
Il testo è furbo, integra un progetto di legge di consiglieri che non avevano condiviso l’emendamento, così alla fine la maggioranza c’è e la norma passa, i ricorsi pendenti al Tar e al Consiglio di Stato sono cancellati.
I 500 posti di lavoro, però, nessuno li ha mai visti.

(3 – continua)

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