22 giugno 2007 La Catroniera non era
solo una corriera ma una questione sociale.
Parliamo di una trentina d'anni fa, ora
i ragionamenti che si possono fare non sono più così o, almeno, lo sono a livelli troppo
complessi per farceli stare in una corriera.
Parliamo di quando il pendolarismo tra
Roncade e Treviso era un evento quotidiano solo per studenti e qualche impegato negli
uffici del capoluogo, o cameriera al servizio di abitazioni del centro, o ancora
infermiere dell'ospedale che scendevano a Fiera per attraversare il ponte pedonale sul
Sile. Tutta gente che oggi, se non è diventata romena o polacca, per andare su e giù da
Treviso prende la macchina.
La Catroniera, dicevamo. Occorre
raccontarla bene.
Corriera normalente di colore celeste sbiadito, anno di immatricolazione
indefinibile, che andava e veniva da Treviso via Cendon, lambiva l'incrocio del centro con
urlo di frenata che giungeva nei quattro angoli della piazza e se ne girava subito a
destra, per procedere - dopo fuggitiva fermata davanti al castello - verso San Cipriano,
Ca' Tron e Bagaggiolo.
La Catroniera sfiorava appena, sul vertice opposto del quadrivio del centro,
la collega "nobile" della linea principale, quella che viaggiava fra Treviso e
San Donà attraverso Silea, Biancade e Meolo - la Treviso Mare era ancora un disegno su
carta - più frequente e più frequentata. Linea più da etichetta, per l'Atvo (all'epoca
Fap) e quindi dotata di autobus di norma sempre più recenti o, mal che vada, meno
rugginosi e meglio riscaldati, anche per via dei finestrini che si chiudevano tutti.
Epoche in cui il bigliettaio era a bordo e nelle quali nessuno ancora, tra i
meno assonnati delle sette del mattino, aveva ancora cominciato a chiedersi da quale
cazzuta radice latina possa mai derivare un termine come "obliteratrice".
La Catroniera aveva un nome, peraltro,
onomatopeico, nel senso che nel pronunciarlo si replicava con sufficiente approssimazione
anche il rumore che facevano le porte quando, dall'esterno o dall'interno, il bigliettaio
le chiudeva. "Scatatron!"
O anche del freno a mano che, in talune circostanze, l'autista innestava
tirando su e giù la lunga leva accanto al sedile ("ca-tron, ca-tron, ca-tron")
per ammortizzare qualche minuto di anticipo. Autisti meno fortunati di quelli della linea
ammiraglia, i quali, nelle brume invernali, in simili occasioni il cappuccino di Gianni De
Lazzari almeno se lo sorbivano. Per questo che correvano spediti da San Donà fin qui.
Tanto la gente che dormiva dentro, al buio, neppure se ne accorgeva.
Ma la Catroniera aveva una fisionomia
più spiccata soprattutto all'una e mezza del pomeriggio, alla partenza degli studenti da
Treviso (allora la stazione Fap era all'incirca davanti l'ingresso del cinema Embassy). La
si poteva prendere benissimo per tornare a Roncade centro, anzi, era anche più veloce,
c'era meno gente, e faceva meno fermate. Però i roncadesi della piazza mica ci salivano.
Perchè la Catroniera era una specie di capsula che transitava per il centro
quasi solo per una questione tecnica, destinata com'era ad infilarsi nelle profondità
della roncade rurale ancora viva e distinta degli anni '70.
L'altra, invece, era la carrozza della Roncade borghese e commerciale, della
gente che, al mattino, aveva potuto attendere il bus al riparo dei portici, se pioveva.
Persino chi faceva un po' di sport
trovava diversità chiare tra il viaggiare sull'una o sull'altra rotta. Nella Catroniera
c'erano i ragazzi che giocavano quasi esclusivamente a calcio perchè San Cipriano e Ca'
Tron più di campi da pallone non avevano.
Gli altri andavano già nel tiepido delle palestre, e si cimentavano
soprattutto con basket e volley. Che erano basket e volley, mica pallacanestro e
pallavolo.
Adesso ci saranno delle buone ragioni
se la Catroniera rischia un
accorciamento della gloriosa tratta. Pare ci sia un problema per una piazzola
a Bagaggiolo, senza la disponibilità della quale la corriera non può fare inversione di
marcia.
Certo, oggi parliamo di un bus silenzioso, blu o arancio squillante e con
l'aria condizionata.
Però la mutilazione paventata è sempre una specie di attentato alla
memoria. |